Gorillaz. L'album di debutto del side-project più riuscito di sempre (2023)

Da sempre, le storie dei Gorillaz viaggiano parallele. C’è quella di Damon Albarn e Jamie Hewlett, che fanno conoscenza nel lontano 1990 in occasione di un’intervista per Deadline orchestrata da Graham Coxon, che qualche anno più tardi non sarà proprio contento nel vedere l’autore di Tank Girl uscire con l’ex e beccarsi di conseguenza le antipatie degli altri Blur. Nonostante il rapporto iniziale non fosse dei più idilliaci, con insulti a profusione (cunt, arsey, wanker) tenuti stretti tra i denti, Damon e il fumettista, mentre raccolgono i cocci della fine delle rispettive faccende di cuore decennali, scelgono nel ’97 di dividersi le bollette in un appartamento di Westborne Grove. La routine è quella da popstar annoiate, tra feste infinite con lo show biz presente all’appello – tra gli avventori segnaliamo anche componenti di Radiohead, Pavement, Kate Moss e perfino due Spice Girls – e un seccato zapping compulsivo davanti al televisore, mentre Bowie e Pete Townshend lasciano messaggi in segreteria per conoscere la data del prossimo party. Sorbendosi l’ennesimo video inutile mandato in onda da MTV svaccati sul divano, la coppia rinsavisce e capisce che è il momento di rimboccarsi le maniche. Ognuno fa quello che gli riesce meglio: c’è chi scrive le canzoni, chi prende prende carta e matita e si mette a disegnare. That’s all. Questa è la versione di fantasia.

La storia vera (che più vera non si può), invece, ha per protagonista un bulletto di nome Murdoc, un matto da legare con propensioni al satanismo che vuole tirare su una band per sfondare le chart. Gli serve un basso a tutti costi, i soldi mancano, ma nei paraggi c’è un negozio di strumenti musicali: insomma, senza tirarla per le lunghe, si fa coraggio ed entra nel negozio… con tutta la macchina. Prende in pieno il povero Stu-Pot, un timidone bravino con la tastiera, e lo ferisce all’occhio. Per punizione, Murdoc si becca 30.000 ore di servizi sociali più altre 10 a settimana per assistere la sventurata vittima dell’incidente, che finisce ancora peggio: per fare lo spaccone con delle tipe in un parcheggio, Murdoc scaraventa il povero cristo in aria. Per il botto, perde definitivamente la vista all’occhio destro, finisce in coma per qualche tempo ma si guadagna un posto nella band e un nuovo nome, 2-D (two dents), per ricordarsi in eterno dell’ammaccatura. L’arrivo alla batteria di Russell Hobbs, borghesuccio di New York già posseduto dal demonio e salvato dall’hip hop, e di Paula Cracker – l’allora fidanzata di 2D – alla chitarra, serra la line-up di questo sgangherato gruppo. Murdoc, che sarà più o meno sempre il leader della band, più avanti concederà ad Albarn l’onere e l’onore di suonare i brani di questi Gorillaz (in principio, senza Z): insomma, il biondo di Leytonstone è a capo di una cover band a tutti gli effetti.

Tra poco serio e molto faceto, è più o meno questa la situazione che dà vita al side project più riuscito della storia, per quanto Hewlett ammetterà più avanti di soffrire non poco l’essere protagonista del progetto secondario di qualcun altro, ma questa è un’altra faccenda.È invece necessario tornare sul contesto attorno ad Albarn, senza il quale molto probabilmente non avremmo mai avuto a che fare con scimmioni redivivi, fughe a tutta birra nel deserto e isole perse tra le nuvole. Il 1999 è l’anno di 13, quello che a tutti gli effetti è da considerare il White Album del quartetto londinese, praticamente devastato all’interno tra dissidi insanabili, ripicche, anni di abusi e Graham Coxon che ormai non si regge più (in piedi). «It’s over», canta Damon in No Distance Left To Run: il riferimento è alla ex Justine Frischmann, ma insomma, la fine dei giochi è su più fronti. Il disco è un punto di non ritorno, e ad oggi rappresenta l’estremo raggiunto dalla band, e nonostante le due super ballad Tender e Coffee & Tv è l’intingolo di elettronica, kraut, trip hop e lo-fi a tracciare i contorni di un’opera ancora oggi divisiva, sicuramente avanti ma altrettanto fallimentare se pensiamo a quanto i Radiohead siano stati in grado di capitalizzare e cristallizzare quelle intuizioni formulate appena qualche mese prima proprio dai Blur. Le session di 13 sono un inferno, la pazienza di tutti è terminata. Damon già da qualche tempo ha altro per la testa, suoni – dub e hip hop in primis – che con la sua band non può processare, che la pur affezionatissima fanbase non accetterebbe, forse anche a ragione. La misura è colma.

Torna nell’apnea dello studio. Tira su praticamente da solo più di mezzo album, ma chiama Dan “The Automator” Nakamura, un altro malato terminale di hip hop, a dare orecchio e mani alla produzione noir di questa opera avvolta dai fumi della rotta Londra-Kingston, con Hewlett che nel frattempo cura maniacalmente l’identità visiva di questo collettivo diviso in due parti uguali, perlomeno in teoria. Progetta siti che ancora oggi fanno scuola per chi voglia inventarsi qualcosa di nuovo (?) nell’industria musicale, disegna videoclip epici, mette in piedi la fantomatica agenzia Zombie Flesh Eaters per portare avanti una strategia di base che coincide essenzialmente con il non tirare in mezzo il nome di Albarn, ma l’oscurità sul progetto si dipana immediatamente, giusto il tempo di ascoltare i versi iniziali della happymondaysiana Tomorrow Comes Today, title track dell’EP d’esordio della bestia gorillesca (2000), che contiene altri brani subito infilati nella prova lunga. L’attenzione è praticamente alle stelle, le antenne sono tutte sintonizzate: Clint Eastwood cala dall’alto dei cieli per spazzare via qualsiasi cosa. Più che un brano, un’epifania. La hit è tutta nel preset dell’Omnichord accesa da Damon, impacchettata e pronta all’uso. In pratica un successo planetario a portata di mano. Certo, messa così pare facile, ma quella linea di armonica morriconiana la devi suonare, quel ritornello devastante che canticchia pure mia madre (grazie anche all’ADV di una banca che ricordiamo tutti) te lo devi inventare, quelle rime – Del tha Funkee Homosapien, subentrato a registrazioni quasi concluse, si consegna all’eternità – le devi rappare con tutta la coolness che puoi. Probabilmente l’inno definitivo di inizio millennio e non ci sono discussioni. Il numero che l’autore non tirerà mai più fuori dal cilindo.

Per il resto, Gorillaz è opera definitiva nel tracciare un solco profondo, profondissimo, nella grammatica Albarn e nel modo in cui guardiamo al pop. In effetti alla base di quest’avventura c’è sì tanta voglia di fare come ti pare, ma anche di vedersela faccia a faccia con l’immondizia radiofonica e batterla sullo stesso campo («I love the idea of competing with the shit»). Un disco che a bocce ferme ha ben poco di geniale, ma che contiene in nuce un approccio sgangherato e leggero che fa tutta la differenza del mondo.

Divertente nel suo muoversi agile tra mondi soleggiati e visioni notturne, abbiamo tra le mani una raccolta di brani – ma più realisticamente anche qualche schizzo e bozzetto giusto 3 o 4 passi avanti al futuro Democrazy – che l’autore potrebbe scrivere meglio con appena un po’ più d’impegno: in un pomeriggio svogliato, Coxon quanti ne tira fuori di sketch da Pavement lover come 5/4? Quel frullato tra hip hop, country e acustica di Re-Hash (tra i preferiti di chi scrive) non vi suona come una b-side rimaneggiata dell’unico altro essere umano sul pianeta Terra che avrebbe potuto inventarsi i Gorillaz, e parliamo ovviamente di Beck? È quell’approccio sbilenco e spontaneo alla materia che crea lo scarto decisivo, che riesce a passare sopra anche ad episodi stagnanti come il battimani bambinesco di Punk, con tanto di stop&go caricaturali alla Chemical World, o quella Starshine che ancora non capiamo come non sia stata presa in prestito da Guy Ritchie. È essenzialmente l’altra faccia della medaglia di The Great Escape, quella senza manie di protagonismo. Qui non c’è nessun Dan Abnormal ubriaco marcio a Piccadilly da sbattere in taxi per riportarlo casa, ma un ragazzo che torna a divertirsi con la sua musica, con il sogno di modellare a piacimento una pasta reggae e dub maneggevole per tutti. Non a caso, Damon ammette di aver sempre voluto essere uno Special, e l’incarico di A&R per Honest Jon’s (Mali Music è il debutto del 2002) con i tipi dell’omonimo negozio di dischi di Portobello è la prova che la passione per certe atmosfere sono ben più di una sbandata temporanea di chi è arrivato al limite, e di rock e affini non ne vuole più sapere.

Altra band di cui avrebbe voluto sempre far parte sono i Massive Attack (e più avanti il sogno sarà anche coronato), ma la fissa per il trip hop, che in 13 aveva dato luce a soluzioni di tutto rispetto (Trailerpark), per l’occasione è annacquato in un b-movie poliziesco che tira in ballo dei Portishead fuori forma (New Genius (Brother)). Materiale, a giochi fatti, facilmente intercambiabile con metà scaletta di Think Tank, che difatti risentiva del clima delle session con la cartoon band e della nuova forma mentis del suo deus ex machina, che arrivato ai nastri d’arrivo due anni dopo l’esordio Gorillaz, metteva il punto definitivo (anzi no) della sigla ormai ostaggio del frontman, dopo l’abbandono a inizio incisioni di Graham. Più cinicamente, senza la nuova creatura nata un paio d’anni prima a fungere da inevitabile diluente, chissà che impiastro sarebbe stato il settimo album dei Blur, con tutti quelle voglie inespresse da spalmare in scaletta.

Non mancano tuttavia i colpi da campione per alzare le quote: il dub fumante di 19-2000 (superbo, tra l’altro, il Soulchild remix), il fraseggio di fiati di Rock The House, il sole della controra nella stramba Latin Simone (¿Qué Pasa Contigo?) che coinvolge la leggenda cubana Ibrahim Ferrer, la tenera ballata con folate di vento più pianoforte di Slow Country e, ovviamente, Clint Eastwood (con tanto di remix 2-step) e Tomorrow Comes Today. Un giochino divertente, perlomeno in apparenza, non fosse che spettri del passato e del presente sono sempre lì, con riferimenti alle dipendenze di ieri, il senso di solitudine (Ferrer si rivolge proprio a 2D per tirarlo su di morale) e di morte che trasudano freddi e malinconici dalla penna, che pure non disdegna cantilene o immancabili “oh oh oh” et similia da tradizione.

Alla fine della giostra, il successo è planetario – quattro milioni e mezzo di copie vendute nel mondo – e Albarn abbraccia finalmente il successo con quegli States che anche dopo Song 2 non lo avevano mai accettato del tutto, e non fatichiamo a capirne il motivo. Già a partire da Demon Days (2005), la faccenda si farà ancor più seria, e la sigla diventerà un carrozzone pesante, pesantissimo, infilando ancora qualche singolo spacca classifica (Dare, Feel Good Inc.) e lucidando di volta in volta un parquet per all-star che solo Morrissey continua a rifiutare in eterno (forse), mentre Damon pare totalmente a suo agio nei panni di padrone di casa e leader di questo concept creativo più o meno condiviso, spesso anche a discapito dello storytelling di Hewlett, e infatti i dissapori tra i due non tarderanno ad arrivare. Ma aldilà dei risultati, fermo restando che anche gli episodi meno brillanti non scalfiranno nulla, nelle opere successive del viaggio mancheranno sempre – tolta la bella raccolta D-Sides che infatti gioca sullo stesso campo – l’ingenuità e la freschezza di questo sbandato esordio, anche negli errori, del tutto necessario nel cammino in perenne divenire del suo autore.

Top Articles
Latest Posts
Article information

Author: Sen. Emmett Berge

Last Updated: 03/24/2023

Views: 6670

Rating: 5 / 5 (80 voted)

Reviews: 87% of readers found this page helpful

Author information

Name: Sen. Emmett Berge

Birthday: 1993-06-17

Address: 787 Elvis Divide, Port Brice, OH 24507-6802

Phone: +9779049645255

Job: Senior Healthcare Specialist

Hobby: Cycling, Model building, Kitesurfing, Origami, Lapidary, Dance, Basketball

Introduction: My name is Sen. Emmett Berge, I am a funny, vast, charming, courageous, enthusiastic, jolly, famous person who loves writing and wants to share my knowledge and understanding with you.